L’Alfasud Bimotore Wainer può essere tua!
Prima dell’Audi Quattro, prima della 1.5 Ti Turbokit, il geniale Gianfranco “Wainer” Mantovani aveva già moltiplicato il potenziale sportivo dell’Alfasud con la Bimotore a trazione integrale. Sarà battuta all’asta di RM Sotheby’s il 13 febbraio a Parigi.

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C’è una collezione di Lamborghini che resusciterebbe la libido di un ottuagenario. La Bentley 4 ½ Supercharged Tourer e la Aston Martin DB6 Volante, che sono pura aristocrazia inglese. Una Lancia Flaminia super Sport 3C 2.8 Zagato che è un’altra espressione dell’auto, se non aristocratica, di classe superiore. Ci sono le Ferrari e il solito stormo di Porsche 911 di ogni ordine e grado. In mezzo, poco pubblicizzata, anche l’Alfasud Bimotore Wainer. Quasi proletaria, poco reclamizzata, però è una vera sorpresa fra i lotti dell’asta di RM Sotheby’s di Parigi, del prossimo 13 febbraio. Niente prezzo di riserva, nessuna stima di acquisto, anche perché è difficile stabilirne una. L’Alfasud Bimotore è una di quelle piccole cose che fanno grande l’Italia, una prova del genio – sempre accompagnato dalla giusta dose di follia – che ci ha sempre permesso di fare la differenza. E un pezzetto di storia dell’Alfismo.

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Il frutto della passione. La Bimotore è un progetto più originale e pionieristico che blasonato. La piattaforma, l’Alfasud costruita (male) a Pomigliano d’Arco, è stata votata “auto degli anni Settanta” dalla rivista CAR e con 1.017.387 vetture (comprese le versioni Sprint, Ti e la rara Giardinetta, costruita in circa seimila pezzi) è stata la seconda Alfa più venduta della storia del Biscione, di poco dietro la 33. Non pochi continuano a chiamarla “o Scarrafone”, ma sono problemi che il preparatore Gianfranco “Wainer” Mantovani non si pose più di tanto nel 1974. La prima serie dell’Alfasud era stata ben accolta da pubblico e stampa, sebbene emergessero già i problemi di scarsa qualità dell’assemblaggio e i segni della ruggine. Di Alfa e di corse Wainer sapeva parecchio, al punto da diventare consulente dell’Autodelta: fra Settimo Milanese e la sua officina di Corsico c’era giusto un quarto d’ora di strada. E poi, se c’era un buon muletto su cui sfogare il bernoccolo della meccanica, era servito. Wainer si mise in testa di trasformare una zucca in carrozza per farla correre sulle maratone stradali dell’epoca, tipo Targa Florio. E naturalmente nei rally, in cui l’Alfasud avrebbe debuttato solo due anni dopo con l’Autodelta e dove la trazione integrale avrebbe conquistato la scena solo dopo il 1980.

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L’integrale fai da te. La ricetta di Wainer era semplice, almeno a dirsi: smontare completamente il retrotreno e i sedili posteriori di un’Alfasud Ti e sostituirli con un cassone dove alloggiare un secondo 4 cilindri boxer da 1.186 cc e 79 cv. Gemellato all’anteriore, trasmissione e sospensioni comprese. L’equazione doveva portare al raddoppio della potenza e alla trazione necessariamente integrale, fai-da-te. Ogni boxer mantiene un apposito carburatore doppio corpo, il cambio e la frizione. Dopo aver girato la chiave di contatto, per avviare entrambi i boxer basta premere i due pulsanti installati fra i sedili anteriori. Per ovviare ai problemi di raffreddamento, il motore posteriore è dotato di radiatori con elettroventole poste accanto alle prese d’aria laterali nere. Queste e lo spoiler anteriore dello stesso colore, oltre al vistoso lettering “Alfasud Wainer Bimotore” con le strisce bianche sul rosso Alfa della carrozzeria, costituiscono le note estetiche che la rendono riconoscibile a prima vista. La posizione di guida resta la stessa dell’Alfasud Ti, con la nota spettacolare della plancia con doppia strumentazione, per controllare le indicazioni di ciascun motore. Quale valore attribuire a un tale frutto della passione, conservato nelle condizioni originali? Ogni Alfista potrà rendersene conto seguendo l’asta parigina di RM Sotheby’s – e magari partecipandovi. Per tutti gli altri, potrebbe essere più semplice reperire una copia di Ruoteclassiche dell’agosto 2011, dove si parlava di questo esemplare.

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Le altre Alfa bimotore. Nulla si crea, tutto si trasforma: la legge di Lavoisier vale anche per le Alfa Romeo. L’idea di raddoppiare il motore era già stata applicata sulle monoposto da corsa negli anni Trenta. La più celebre è la 16C Bimotore realizzata in due esemplari nel 1935, su idea di Enzo Ferrari, che ai tempi dirigeva il reparto corse del Portello. Anche in questo caso si operò in senso empirico piazzando alle spalle del pilota un secondo 8 cilindri della Tipo B P3. Teoricamente la potenza saliva fino a 540 cv, ma non andò benissimo: la 16 cilindri 3.2 litri non stava in strada e scaricava male la potenza al suolo. Però camminava, eccome. Prima di accantonarla, Nuvolari riuscì a togliersi la soddisfazione di battere i record europei di velocità sul chilometro e sul miglio lanciato. Prima ancora, le quattro monoposto da corsa Tipo A del 1931 erano state progettata da Vittorio Jano affiancando due motori a sei cilindri in linea da 1.752 cc, con scatole del cambio affiancate e compressore. Di entrambe sono esposte le repliche al Museo Storico Alfa Romeo di Arese.

[ Articolo tratto da Ruoteclassiche ]